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INDICE IFIIT: investimenti finalmente in ripresa, crescono all’estero le pmi globalizzate

Nel mese di luglio, per la prima volta da sei mesi a questa parte, l’Indice Ifiit risale – anche se di poco – sopra la soglia dei 34 punti base, andandosi a collocare a 34,10 punti. Nel corso del secondo trimestre dell’anno – dal mese di aprile fino a giugno – l’Indice Ifiit si è mantenuto sostanzialmente stabile all’interno della fascia compresa fra i 33,50 e i 33,90 punti, a testimonianza sia di un raffreddamento della propensione agli investimenti in innovazione tecnologica, sia del raggiungimento di un punto minimo dal quale non ci si è distaccati. E’ necessario infatti ricordare che un certo appiattimento sui valori minimi si era già registrato nel primo trimestre del 2012, dopo il crollo manifestato nel mese di dicembre 2011 (a 32,70 punti), a testimonianza delle difficoltà che sta vivendo la nostra economia. Il Paese è entrato in una fase di recessione e ad investire in progetti di sviluppo e di innovazione tecnologica sono solo gli imprenditori che vivono di esportazione e/o di internazionalizzazione, oppure quelli che, pur lavorando sul mercato interno, sono collocati su nicchie profittevoli. Per questa ragione restano posizionati su alti livelli di attenzione verso la ricerca e l’innovazione solo i grandi gruppi industriali, alcuni distretti e filiere produttive fortemente orientate ai mercati esteri. Il sistema delle piccole e delle micro imprese appare ulteriormente indebolito rispetto al trimestre precedente, sia a causa di una stagnazione della domanda, sia per ragioni legate ai mancati pagamenti: la mancanza di una circolazione del denaro crea disagi per il tessuto produttivo e per l’indotto ad esso agganciato. In questo quadro si devono leggere e interpretare tanto le chiusure di alcune realtà produttive, quanto le cessioni a gruppi stranieri. In materia di digital divide si accentuano le differenze tra le regioni, in quanto alcune realtà come la Lombardia, il Piemonte, il Veneto, ma anche l’Emilia Romagna e il Lazio, manifestano un progressivo accrescimento delle competenze per dare vita ad un processo di sviluppo delle reti a banca larga e ai relativi servizi. Tuttavia nel complesso il sistema-paese manifesta ancora lacune e indecisioni che pesano sull’avvio del rilancio. Per ciò che concerne le aree geografiche si registra una sostanziale tenuta delle posizioni in Lombardia e in Emilia-Romagna, nonostante il terremoto.La Toscanae il Lazio recuperano leggermente posizioni, mentre torna a soffrire il Meridione. In ordine sparso le province del Triveneto, che torna a differenziarsi sia sul piano territoriale e sia sul piano dei settori. Tra i comparti produttivi si collocano in alto alla graduatoria della propensione agli investimenti in innovazione i settori del made in Italy tipicamente orientati all’esportazione: il metalmeccanico, il fashion, il lusso, alcune filiere agroalimentari e l’energetico. Ma anche i comparti high-tech, il farmaceutico e l’avionico. Manifestano una relativa stabilità il settore distributivo, il bancario-assicurativo, l’automobilistico e il mondo dei servizi. Ancora in discreto calo l’edilizia, il mondo del commercio al dettaglio, le categorie professionali, la micro-impresa e alcuni distretti la cui competitività comincia a cedere posizioni.

L’analisi

Sulla base delle rilevazioni compiute sul campione di Ifiit emerge un Paese alle prese con una sfida epocale. L’umore degli imprenditori è sospeso tra l’ansia di un riscatto, morale ed economico, e la consapevolezza della gravità di una crisi che investe più piani e che impone prudenza. Una parte della platea degli operatori comincia a manifestare una certa rassegnazione: è in questa sfera che si colgono con maggiore vigore i desideri di espatriare con l’azienda e con la famiglia, la volontà di chiudere l’attività o di cederla. Anche tra queste persone che hanno o avrebbero deciso di mollare la spugna non c’è la rinuncia all’attività imprenditoriale e alla richiesta di investimenti: c’è solo la voglia di riallocare gli asset produttivi su aree geografiche più ospitali e più promettenti. Come già anticipato in un precedente bollettino di Ifiit, è in aumento il numero delle società che trasferiscono la loro sede legale all’estero continuando ad operare in Italia ma solo sulla base di ridotte capacità dimensionali. Anche in questi segmenti la spinta all’innovazione tecnologica resta alta, se non addirittura più alta, in quanto le imprese cercano di tagliare i costi fissi per tornare a migliori livelli di profittabilità: la contrazione degli spazi produttivi e degli addetti – con la conseguente riduzione della tassazione e degli oneri burocratici e fiscali – consente ad alcuni gruppi di poter operare con un livello maggiore di serenità. Alcuni gruppi tessili e metalmeccanici hanno portato all’estero anche la parte strategica e di marketing per le attività all’estero, relegando sul suolo italiano le sole competenze territoriali adatte ad un mercato in traiettoria statica se non declinante. In molte filiere produttive – confermano gli stessi imprenditori intervistati – il tasso di utilizzo degli impianti è sceso al 50-55%, un livello critico al di sotto del quale risulta antieconomico continuare a produrre. La cilindrata del motore economico e produttiva si sta riducendo e necessariamente dovranno nascere e svilupparsi nuovi modelli produttivi diversi da quelli sin qui adottati. Da qui l’esigenza di ripensare il processo industriale e la scelta degli impianti. E da qui una aumentata sensibilità verso gli investimenti in innovazione tecnologica che consentano di recuperare competitività e produttività in presenza di minori costi fissi. In questo clima si presenta con drammatica evidenza la sfida che gli imprenditori sono chiamati ad affrontare. E che si condensa nella semplice ma intricata domanda: come sarà possibile continuare a produrre in Italia? L’aumento delle tasse, il calo dei consumi, l’ombra di possibili e nuove manovre correttive, oltre al rischio di nuove e incombenti incertezze inducono molti titolari d’impresa ad una maggiore cautela, se non diffidenza. In questa fase vengono salutate come innovative le scelte di una maggiore automatizzazione degli impianti e le banche vedono con maggiore simpatia le richieste di finanziamenti per nuovi processi produttivi che prevedano tagli organizzativi. In tal senso, mentre la politica e i sindacati sono alla ricerca di un modello di “crescita” che sappia creare occupazione, il sistema del credito sembra strizzare l’occhiolino ai progetti che invece riducano drasticamente i costi, quindi anche e soprattutto quelli occupazionali. Ne emerge uno scenario complesso, a tinte chiaroscure, dove la propensione agli investimenti in innovazione è funzionale non al rinnovamento e all’evoluzione dei modelli organizzativi, ma alla loro rivoluzione. Molto probabilmente ci troviamo alla vigilia di un cambiamento significativo e potente delle stesse logiche di creazione dell’impresa, con una più spiccata attenzione verso i budget e la contabilità piuttosto che verso le strategie. La mentalità della spending review su cui sta lavorando il governo per imprimere un cambiamento nei comportamenti degli italiani sembra avere inevitabili effetti anche sull’orientamento delle industrie e delle società di servizio che, con ogni probabilità, insisteranno di più sulle competenze dei direttori finanziari e dei responsabili degli uffici acquisto che non su quelle del marketing. E’ anzi probabile che, oltre ai tagli produttivi, vengano ridisegnate anche le reti commerciali e distributive, al fine di ottenere una maggiore efficienza generale. Tutti questi fattori stanno concorrendo tra loro in una dinamica molto variegata e ad alto livello di individualizzazione perché sempre più imprese (soprattutto le medio-grandi) sono inserite in una rete mondiale di sub-fornitura e gli indotti – un tempo tradizione del territorio circostante a quello dove aveva se l’impresa – sono sempre più distribuiti in un’ottica geo-politica. Una considerazione che potrebbe mettere a dura prova la tenuta di alcuni distretti finora storici e che da qualche tempo sentono il soffio del cambiamento. Quanto e come sarà possibile continuare a produrre in Italia? E’ questo l’interrogativo che emerge con forza dallo scambio di idee e di riflessioni con il mondo degli imprenditori che hanno risposto al questionario dell’indice Ifiit.

Il focus: gli investimenti delle pmi multinazionali italiane

Cresce il numero delle imprese italiane che internazionalizzano l’attività e che destinano ampie risorse finanziarie all’estero per lo sviluppo produttivo e la commercializzazione. Nel contempo cresce anche il volume degli investimenti esteri in Italia. Il mondo industriale torna ai livelli pre-crisi per quanto riguarda gli investimenti, anche se il futuro resta alquanto gravido di interrogativi legati al generale clima di incertezza dell’economia. Secondo i dati contenuti nel World Investment Report 2012 dell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite per lo sviluppo e il commercio, “nel 2011 gli investimenti esteri in Italia sono saliti a 29 miliardi di dollari dai 9 miliardi dell’anno precedente”. Un salto di qualità che testimonia un certo grado di attrattività del nostro Paese agli occhi degli investitori stranieri, anche se il record dei 36 miliardi di dollari di investimenti giunti nella penisola nel 2008 appare ancora distante, ma non così lontanissimo come due anni fa. Per quanto riguarda invece i flussi di investimento delle imprese italiane all’estero, il cui brusco raffreddamento si è registrato nell’anno 2009 (con un volume di 21 miliardi di dollari), l’anno scorso la cifra si è avvicinata ai 47 miliardi di dollari. Anche questo dato conferma la tenuta di una grande vitalità da parte del mondo imprenditoriale italiano, che non si è arreso davanti alla crisi, anche se in alcuni o molti casi è stato costretto ad allargare il raggio d’azione a causa della stagnazione interna. Alla fine del 2011 le aziende italiane che hanno sensibili partecipazioni all’estero e che hanno accresciuto il livello di internazionalizzazione sono salite a 7 mila e 500 (per la metà provenienti dal Nord-Ovest, per il 30% dal Nord-Est, per il 16% dal Centro e per il rimanente 4% dalle Isole). In totale le aziende straniere che nei diversi continenti hanno partecipazioni di aziende italiane (anche con le quote di minoranza o con quote rappresentative) sono oltre 27 mila. Le partecipazioni di soggetti esteri in Italia sono legate a circa 4 mila e 500 soggetti investitori, che possono vantare presenze in circa 8 mila e 500 aziende. La maggior parte degli investimenti dei finanziatori italiani è collocato in Europa (area euro e Unione), seguono l’America Latina, l’Oriente, l’America e l’Africa.

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